Benvenuti, carissimi e carissime, in questo tredicesimo episodio della rubrica “Pixel e Neuroni” in collaborazione con Laborplay.Come sempre, il focus del nostro viaggio è quello di apprendere psicologicamente tramite l’utilizzo dei videogiochi che, come qualsiasi altro medium, rappresentano il mezzo e non il fine dell’esperienza che desideriamo acquisire. Nel corso delle varie puntate, abbiamo avuto modo di conoscere e scoprire un sacco di titoli, più o meno noti, che in qualche modo contribuiscono a rinforzare il nostro comparto di competenze soft. I titoli che ho proposto, nella maggior parte dei casi, sono di facile accesso e utilizzo da parte di tutti. Lo skill gap richiesto per riuscire a rompere la barriera della difficoltà non è difficile da scavalcare (Dark Souls e Fallout a parte) e il motivo alla base è molto semplice: se la difficoltà è troppo alta la possibilità di apprendere viene meno.
Certo, se il consiglio del giorno sta nel potenziare l’antifragilità sarà ovvio trovare esperienze di un certo tipo, rispetto ad altre che magari puntano maggiormente sull’allenamento vicario dell’empatia. Oggi, però, ho deciso di concentrarmi su un concetto specifico, presente in videogiochi non fruibili da tutti, ovvero il tema della difficoltà nel gaming. Come questo aspetto possa essere rilevante per la rubrica, lo vedremo nelle prossime righe di questo articolo, per ora vi basti sapere che ultimamente ho rimesso mano sui diabolici giochi a marchio FromSoftware e ho potuto riflettere sul senso stesso della difficoltà nelle esperienze di questo tipo.
Premessa: il nostro sistema psichico è fatto per affrontare le sfide più toste che ci possono essere poste innanzi dalla vita. Ci adattiamo, impariamo ed evolviamo proprio per i saliscendi dell’esistenza: senza di essi ridurremmo di molto il nostro potenziale di crescita. Una mente inerte e statica ha un triste destino, fatto di noia e tedio. Al contrario, cavalcare le onde affrontando la burrasca è l’unica vera via per un completo processo di umanizzazione. Tornando alla questione difficoltà e del perché sia nato in me il desiderio di scrivere questo articolo, ho potuto ragionare sull’esigenza che un titolo come Elden Ring (o qualsivoglia gioco From) ha di essere “difficile”. L’esperienza è a tutti gli effetti metacognitiva, capace di andare ben oltre lo schermo. Il giocatore condivide con il suo avatar sostanzialmente due cose: una parziale comprensione del mondo in cui si trova e la fragilità che gli abitanti di quel mondo affrontano. È un’esperienza che tramuta in vero pixel, stringhe di codice ed effetti speciali. La connessione tra le parti, reali e fittizie, non può essere rimossa, pena la rottura completa del senso stesso di gioco.
Shadow of the Erdtree
È da poco uscita Shadow of the Erdtree, colossale espansione (DLC) per Elden Ring che, come ci si aspettava, ha proiettato i giocatori in una nuova landa di gioco dalla difficoltà ancora più elevata rispetto alla campagna principale. Ne sono susseguite moltissime lamentele per il fatto che, ancora una volta, molti giocatori non fossero in grado di affrontare tutte le insidie congeniate dalla mente di Hidetaka Miyazaki, director del gioco. Al grido di “è troppo difficile, non posso finirlo, dovete semplificarlo”, il web si è riempito di reviews negative e commenti acidi volti a demolire l’opera.
Sia ben chiaro, il mio non è un tentativo di difendere a spada tratta questo titolo (ci sono oggettivi difetti, nemici calcolati male e così via), piuttosto di mettere in luce alcuni aspetti presenti nella vita di tutti i giorni che diamo molto spesso per scontati. Non siamo in grado di definire la differenza tra difficoltà e accessibilità, spesso sentendoci esclusi dal mondo qualora, davanti al fallimento, non abbiamo altra scelta che ritirarci. Per essere più specifico, e chiarire la mia posizione in merito, ritengo sia indispensabile che un medium debba poter essere accessibile a tutti ma non per forza alla portata di tutti. Con accessibilità si intende la possibilità di modificare, nel caso dei videogiochi, comandi, risoluzione, avere filtri per chi soffre di daltonismo (ecc) in modo tale che chiunque abbia la chance di provare l’esperienza alla pari. Con difficoltà, invece, intendo proprio quanto le sfide del gioco possano, o non possano, essere alla nostra portata. La serie di titoli From ne è un esempio, infatti non tutti possono avere il desiderio di investire tempo ed energie per riuscire a terminare l’esperienza e questo, udite udite, non è un male.
Sapete perché?
Perché nella vita quotidiana, quella vera che cerchiamo di affrontare con coraggio ogni giorno, esisteranno sempre delle iniquità o degli ostacoli insormontabili. Dobbiamo avere il cuore di accettare questa situazione. Le sfide dovrebbero poter essere accessibili ma anche questo non implica che ne usciremo vincitori e ciò, comunque, non è un male. Allenare la nostra etica del fallimento, in maniera nobile e costruttiva, è essenziale. Se sarà un videogioco a farci metabolizzare questo concetto, tanto meglio. Non finire un titolo, sia esso Elden Ring o God Hand o anche un Call of duty, e ammettere di non aver sviluppato le capacità necessarie o scegliere attivamente di non investirci del tempo, sarà un altro importante allenamento delle nostre soft skill.
Ora vi saluto, torno a farmi rompere a metà da nemici indicibili di Shadow of the Erdtree, nella speranza di uscirne vittorioso oppure cancellando definitivamente dal mio hard disk tutti i dati dalla cartella “FromSoftware”.
Ciao! Ci vediamo nel prossimo episodio!