L’anima oscura del fallimento

Benvenuti, carissimi e carissime, in questo quinto episodio della rubrica frutto della collaborazione tra Laborplay e BardellaPsicologia dal titolo “Pixel e neuroni”.

Come abbiamo già detto in precedenza, per tutta la durata del nostro viaggio virtuale, andremo a scoprire insieme l’importanza dei videogiochi per l’apprendimento di abilità cardinali utili alla vita di tutti i giorni!

E lo anticipo subito: oggi mi odierete così come odierete il titolo che già avrete letto. Avete capito molto bene, non troverete altro che non sia frustrazione, rabbia e apparente ingiustizia. Parliamo infatti di Dark Souls, nello specifico, e di tutti i capitoli della serie, in maniera più generica, che sono usciti fino al 2016. Useremo questo gioco per parlare di etica del fallimento, di quanto, oggi più che mai, l’errore venga visto in maniera negativa, quando al contrario rappresenta la base oggettiva per poter apprendere una nuova abilità e capire le mille sfaccettature che il mondo possiede.

Nel corso del tempo, e per molteplici ragioni, questo titolo ha riscosso un enorme successo da parte della critica videoludica e del pubblico giocante: prima fra tutte la difficoltà di gioco, in controtendenza rispetto ad altri prodotti di punta che dominavano il mercato in quegli anni, elaborati per essere non solo user friendly ma quanto più semplici possibile. Dark Souls propone al giocatore un’esperienza completamente diversa, mettendo in risalto le fragilità del protagonista che si ritrova a vagare perso e senza una guida nei tetri reami di Lordran. 

La serie Souls, creata da Hidetaka Miyazaky, trova le sue radici più profonde in King’s Field, titolo uscito per Playstation nel 1994, evolutosi poi nel suo sequel spirituale, ovvero Demon’s souls (2009) per giungere, infine, alla vera e propria trilogia dei Dark Souls, iniziata nel 2011 e conclusasi solo nel 2016, con l’uscita del terzo e ultimo capitolo. L’opera è stata scelta per diverse ragioni, e non è né spiegabile né godibile a pieno se non vengono considerati anche gli elementi di contorno che la costituiscono.

Uno di questi è il fallimento che FromSotfware, la casa di produzione del gioco, aveva già preannunciato al lancio del capostipite della serie (Demon’s Souls, 2008) a causa di una cattiva ricezione iniziale da parte del pubblico e della critica. Nonostante le premesse non fossero state delle migliori, a Miyazaki e il suo team, fu concesso di terminare lo sviluppo del titolo e di lanciarlo sul mercato indipendentemente dal risultato finale. Quando le basse aspettative diventano ormai certezza, accadde l’impensabile. Nessuno si sarebbe aspettato che da quel rozzo gioco di ruolo, ambientato in un universo sudicio, malato e abbandonato da ogni divinità, sarebbe nata una saga talmente importante da passare alla storia creando, al contempo, un vero e proprio nuovo genere videoludico: il soulslike (titoli che hanno un tasso di elevata difficoltà, dove la narrativa è spesso criptica o non esaustiva, la morte del personaggio ha conseguenze tangibili sul protagonista ma è parte integrante dell’esperienza). 

Le vendite del titolo, leggermente a rilento in un primo momento, salirono in maniera netta e costante, garantendo a FromSoftware la possibilità di proseguire per la strada tracciata dal maestro Miyazaki. 

Questo primo assaggio ci mostra come il progetto di FromSoftware nasca con una marcia in più in termini di resilienza e antifragilità. La concessione che fu fatta al team di sviluppo, quasi come se fosse una sorta di regalo d’addio prima di un fallimento certo, è una chiave di lettura onnipresente nel videogioco: la morte non è mai definitiva, ma è sempre un passaggio imprescindibile per apprendere ed evolvere, così come accadde allo stesso team di sviluppo.

Fallire e ritentare per fallire meglio

La struttura dei souls è molto semplice, si entra in una zona nuova, la si esplora alla ricerca di tesori nascosti e indizi su come proseguire nella trama, il tutto cercando di non rimanere uccisi a causa delle molteplici trappole e dei terribili nemici che si dovranno affrontare. La salvezza all’interno del gioco è data dalla presenza dei falò, ovvero i checkpoint del gioco. Lo scopo di questi luoghi di ristoro è quello di fungere da tappa fondamentale per il viaggio che ognuno di noi deve affrontare quando riveste i panni di uno dei non morti prescelti. L’idea stessa di morte nell’opera è alquanto innovativa, infatti perire non comporterà un semplice game over, come ci avevano insegnato i vecchi titoli nei cabinati. No, la morte è solamente un modo per imparare una nuova lezione sulle meccaniche di gioco, sulla complessità della mappa o sulla strategia da utilizzare contro un nemico specifico.

In breve la struttura di questi giochi è basata interamente sul tradizionale modello di apprendimento umano: 

Idea → Test → Valutazione → Re-test → Valutazione

All’interno di questo basilare schema ritroviamo perfettamente la meccanica base di questo capolavoro videoludico. Si, perché lo stesso “morire” fornisce al giocatore un motivo valido per ripetere con maggiore efficienza l’ultimo pezzo di strada percorsa fino al momento della sua dipartita. In questo, i falò, sono l’elemento cardinale. Ognuno di essi è posizionato con una certa specificità (il più delle volte) in modo da rendere l’esperienza formativa e non eccessivamente frustrante. 

Tracciando una linea sino a qui, quello che possiamo dedurre dal titolo è che l’esperienza di gioco basa tutta la sua struttura sul fallire per apprendere qualcosa; una volta appresa una meccanica nuova il giocatore progredisce in maniera similare al modo in cui il suo alter ego cresce e sale di livello. L’abilità del giocatore, in questo caso, non è di secondaria importanza. Giocare con un eroe di alto livello è meno importante rispetto all’essere un player competente; per accedere a tale competenza è, però, imprescindibile, aver fallito ed essere morti un numero spropositato di volte.

Ecco perché, in completa controtendenza rispetto ad altri titoli, il gioiellino partorito dalla mente di Miyazaki ha avuto, con il tempo, un enorme successo. L’accettazione del fallimento come processo di acquisizione dei contenuti risulta per la maggior parte dei giocatori, qualcosa di digeribile, addirittura godibile. Volersi mettere alla prova, sopportando anche frustrazione e asperità, porta a quella enorme sensazione di successo e compimento che si prova nel portare a termine un compito difficile. Possiamo dire che Dark Souls è concepito per ritardare ampiamente la gratificazione provata durante un momento di pura ludicità, allo scopo di amplificare gli effetti.

Per chiunque ci giochi la prima, come l’ennesima, volta, la vista di un falò avrà sempre lo stesso sapore: quello del dolce successo per essere sopravvissuti nonostante tutte le avversità. Riposare al caldo di quel fuoco vi farà sentire veramente come eroi vagabondi che, per un solo istante, ritrovano una casa sicura dove poter riposare le loro stanche membra, e ristorarsi dagli orrori che brulicano nella terra di Lordran.

Ravvivare la fiamma…

La narrativa di Dark Souls si presenta frammentata, rotta, incoerente, in alcuni casi. Pochi personaggi interagiranno con noi e delle loro parole non sempre potremo fidarci. Il gameplay e la trama corrono tendenzialmente sullo stesso filone: entrambe andranno apprese tramite supposizioni, idee, speculazioni congetture… nulla di ciò che ci verrà detto sarà mai sensato, se paragonato alla nostra cruda esperienza in quelle lande abbandonate dagli dei.

Psicologicamente parlando, il gioco è un viaggio a trecentosessanta gradi. Cognitivamente e spiritualmente saremo coinvolti nell’evoluzione degli eventi che porteranno alla fine o all’inizio di un nuovo ciclo vitale. Non abbiamo detto perché il protagonista non possa morire, bene, ecco svelato il mistero: nel mondo di Dark Souls gli umani hanno contratto una maledizione, quella della non-morte. Essi possono perire ma mai in maniera definitiva. A ogni loro dipartita, però, perderanno un pezzo della loro sanità mentale, fino a giungere alla completa demenza, diventando vuoti simulacri destinati a vagare senza meta e persi per sempre.

Questo ultimo aspetto è direttamente correlato a un principio di metagioco, ovvero il nostro personaggio potrà morire un’infinità di volte e, a parte perdere il suo aspetto umano, diventando un corpo purulento e scarificato, le sue abilità saranno intatte. Quello che più farà la differenza è l’approccio del giocatore. Se il salvataggio di gioco venisse abbandonato, cambiato o cancellato, per la narrativa stessa del titolo, quel protagonista diverrebbe un essere vuoto ormai privo di speranza. Abbiamo parlato di evoluzione cognitiva e psichica proprio per questo. Empatizzando con quel nucleo di dati e stringhe di codice che è il protagonista da noi creato, ci possiamo quasi sentire male nel lasciarlo al suo destino.

Il gioco va continuato, concluso, al fine di opporsi al crudele destino che ci attende. Oppure no. Ci sono molti, moltissimi vacui al borgo dei non morti, magari uno di questi potrebbe essere stato l’eroe di un giocatore che ha scelto di abbandonare la sua cerchia mitica in favore di una sana follia senza ritorno. 

Chi lo sa?!

per scoprire il metodo Laborplay

…Oppure no?

Siamo giunti alla conclusione di questo viaggio, ed è opportuno fare alcune piccole considerazioni. Dark Souls è letteralmente la cosa più vicina, in termini videoludici, a un training basato sulla resilienza e l’etica del fallimento. Ci sono pochissimi giochi che, se affrontati in maniera consapevole, possono restituirci una visione analoga a quella che potremo sperimentare giocando a questo titolo. Quando il protagonista muore, lascia dietro di sé una macchia di sangue: è il nostro precedente residuo vitale, nonché contenitore delle anime (valuta del gioco) accumulate fino a quel momento. Se perdiamo una seconda volta, senza aver recuperato le nostre anime, queste saranno perse per sempre. 

A questo, va aggiunto che, durante l’esplorazione, tutte le nostre risorse saranno limitate e potranno essere ripristinate solo ed esclusivamente riposando nei vari falò del gioco. Fare questo, però, comporterà il ripristino dell’area precedentemente esplorata, compresi tutti i nemici sconfitti fino a quel momento. Lo stesso accadrà se dovessimo morire. 

La difficoltà di gioco sta proprio in tutto questo, ovvero saper gestire le risorse limitate in nostro possesso, scegliere se combattere alcuni nemici oppure no, o magari fare una deviazione verso una zona ignota, consapevoli che potremmo andare incontro a morte certa oppure scoprire un oggetto capace di semplificare il nostro pellegrinaggio. Quanto di più similare ad una vera e propria acquisizione di competenze nuove, in qualsiasi ambito!

Imparare vuol dire necessariamente errare, comprendere che la verità d’azione non sta quasi mai dalla parte dell’oggettività, ma si basa sulla nostra stessa esperienza di vita. Molto spesso, nel lavoro, siamo chiamati ad imparare cose nuove, sconosciute e complesse, così come in Dark souls arriviamo presso una nuova area. Affrontare queste novità comporta sbagliare, ma anche crescere e prendere una strada diversa, parallelamente al salire di livello con il proprio personaggio, per, infine, giungere ad un falò, vero e proprio punto di ristoro dal quale ripartire.

Possiamo pensare ai falò come zone di comfort, dove la nostra skill trova spazio e noi, come lavoratori e apprendisti, sappiamo di poter agire in libertà e sicurezza. Il percorso per giungere ad un altro checkpoint, invece, rappresenta lo stesso viaggio che affrontiamo quando ci mettiamo in gioco, cercando di apprendere qualcosa di nuovo.

Così come la morte non è definitiva per il nostro non-morto, così errare non comporta la fine della nostra relazione con il mondo del lavoro. Al contrario, tutto questo è solo parte di un processo che avviene da sempre, dove errare, ricalcolare e sperimentare permettono di acquisire competenza. Il fuoco, tema onnipresente nel titolo, è paragonabile alla nostra spinta vitale, alla routine di vita che ci siamo creati. Possiamo scegliere se alimentare il ciclo, migliorandoci sempre di più, ma ripetendo la nostra strada personale, oppure far spegnere definitivamente la luce in Lordran, cambiando rotta e cercando di evolvere in qualcosa di diverso e irripetibile, acquisendo con coraggio un ruolo ed uno stile di vita completamente nuovo.

Dark Souls è una grande metafora, un viaggio potenzialmente infinito della vita nell’esistenza.

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