La cosiddetta bocca amara, quella  sgradevole sensazione di sapore metallico in bocca, può rappresentare il campanello d’allarme di patologie più serie ma spesso dipende da condizioni lievi e temporanee. Anche, semplicemente, legate a specifiche situazioni stressanti.

Chissà che bocca aveva James Hetfield la sera del 12 maggio 2022, durante il concerto a Belo Horizonte, quando ha raccontato alla folla un raro momento di vulnerabilità emotiva, parlando delle insicurezze provate durante quella sera.

Subito dopo l’esecuzione di One, visibilmente commosso, il cantante dei Metallica ha raccontato «Voglio dirvi che non mi sono sentito molto bene prima di venire qui… mi sentivo insicuro e pensavo di essere vecchio, di non farcela più a suonare e altre stronzate simili che dicevo a me stesso nella mia mente. Ho parlato a questi ragazzi e loro mi hanno aiutato. Mi hanno abbracciato e mi hanno detto: “Se sul palco fai fatica, noi siamo al tuo fianco e ti aiuteremo”. Per me questo è molto importante».

Dopo queste parole Lars, Kirk e Robert -i suoi compagni di avventura- hanno lasciato le loro postazioni per raggiungere il frontman e abbracciarlo. Poi il leader della band (classe 1963) si è rivolto al pubblico e ha ringraziato le migliaia di persone presenti nello stadio con parole che ha ripetuto simili anche durante il Firenze Rocks: «Vedendovi lì fuori io non mi sento più solo. Non sono solo, e nemmeno voi!»

E se ancora vi sorprendete nel leggere queste parole, cascherete dalla sedia leggendo che uno studio della University of New South Wales, pubblicato su QJM: An International Journal of Medicine, sostiene che personalità del mondo dello spettacolo e dello sport muoiono più giovani rispetto a alle persone che hanno successo in carriere di altro tipo.

I ricercatori hanno analizzato 1.000 annunci mortuari pubblicati sul The New York Times tra il 2009 e il 2011. Tra questi hanno osservato che i musicisti, i cantanti, gli attori e gli sportivi muoiono ad un’età media di 77 anni, cinque anni in meno rispetto ai professori e sei anni rispetto a politici o imprenditori.

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In effetti, a pensarci bene, una carriera di questo tipo ha degli elementi di stress peculiari, come per l’appunto il dover controllare continuamente la propria immagine pubblica nonostante il tempo che avanza inesorabile, e ciò può portare a comportamenti pericolosi. D’altra parte c’è anche il fatto che esistono caratteristiche personali che possono predisporre alcuni individui a intraprendere questo tipo di carriera, e questi tratti caratteriali talvolta possono coincidere con comportamenti e stili di vita che non fanno bene alla salute.

E si capisce che il dubbio sia venuto anche al vecchio James, ha ancora senso suonare metal a 60 anni? Risulta ancora credibile agli occhi dei fan? Riesce ancora a garantire un livello di performance adeguato? 

E quante volte queste domande ce le poniamo anche noi, nelle nostre Aziende? Quando sentiamo che le nostre risorse non sono più in linea con ciò che l’ambiente ci richiede ma preferiamo non esporci per timore di sembrare deboli. E così rischiamo di rimanere schiacciati sotto il peso delle aspettative e dei giudizi, nostri e altrui.

Non è certo un caso che la figura del buddy si stia ormai affermando all’interno delle più grandi organizzazioni: è il compagno che ci aiuta ad orientarci offrendoci quel supporto fondamentale per immergersi negli aspetti della quotidianità, che ci offre il giusto incoraggiamento e le risorse utili per conoscere e fare propria la cultura aziendale.

Che spettacolo avere un buddy come Kirk Hammett o Lars Ulrich, una persona di riferimento che si prende la briga di sospendere il proprio giudizio per velocizzare il processo di comprensione della cultura aziendale e delle procedure principali che impattano sulle attività del nuovo dipendente, per dipanare incertezze e dubbi, per darci fiducia quando le cose sembrano andare peggio.

E se anche Kurt, Chris o Chester (giusto per citarne tre tra quelli che mi sono più cari) avessero trovato quell’ambiente “protetto” per aprirsi e confidarsi forse sarebbero ancora con noi, senza dover fare per forza i conti con un sistema -noi fan compresi- che usa e abusa, trasforma in megafoni e li lascia inceppare, costruisce idoli e li lascia bruciare.

(Nello scrivere non posso evitare la suggestione tra il buddy e il Boddah, amico immaginario fin dall’infanzia, con cui Cobain condivideva i pensieri più intimi) 

Ma tornando ai Metallica, già ai tempi del Black Album, Hetfield aveva deciso che never opened myself this way con uno dei loro pezzi più “diversi”. È un testamento di onestà ed esposizione di sé, di far uscire fuori il vero te stesso, correndo il rischio, accettando la scommessa che qualcuno stia per entrare nel tuo cuore […] Tutta la mia attenzione era sul pubblico, credevo che si sarebbero guardati l’un l’altro senza trovare una spiegazione e avrebbero vomitato” dirà, preoccupato di presentare una ballad a dei fan abituati a ben altri ritmi e toni. 

Inaspettatamente, Nothing Else Matters diventerà non solo uno dei pezzi più richiesti dei loro concerti ma una delle loro canzoni più amate (al momento siamo quasi a 800 milioni di ascolti su Spotify). Inaspettamente per il buon James ma non per un attento osservatore della psicologia umana, perché tra le righe del suo brano il significato personale si fonde velocemente con un senso collettivo, con il consiglio di rendersi aperti e vulnerabili al prossimo per sentirsi vicini. 

Open mind for a different view ed estendendolo in questa nuova prospettiva, il pezzo si connette con così tante persone che trascende la relazione amorosa tra James e la sua fidanzata, diventando patrimonio collettivo in cui ciascuno può proiettare il proprio forever trusting who we are.

Cambiando genere, ma restando in tema, mi risuonano le parole di Vasco Brondi su come oggi il vero superpotere sia essere vulnerabili in ambienti che ci richiedono di essere indistruttibili, di tenere duro di cui non ci sentiamo forse più capaci. Tutti resilienti, mutuando lessico e significati dalla fisica e dall’ingegneria, come fossimo barre di acciaio che resistono a un urto, assorbendo l’energia che può essere rilasciata in misura variabile dopo la deformazione.

In una tanto folle quanto dannosa dicotomia, siamo resilienti quando siamo in grado di reagire di fronte a difficoltà ed eventi negativi, altrimenti siamo deboli. Invece anche l’esperienza di Hetfield ci ricorda che possiamo solo affrontare quello che ci succede, avendo cura di riflettere sulle esperienze vissute. Questo non significa non soffrire, non provare dolore, non disperarsi. Non siamo eroi, né tantomeno siamo tutti resilienti.

Ci deformiamo, eccome se ci deformiamo. Il dolore e la sofferenza ci cambiano, ma più in generale sono le esperienze -di qualsiasi natura- a muoverci inevitabilmente, a trasformarci.
Vivere vuol dire esporsi a questo “rischio” e l’unico dispositivo di protezione è riuscire ad essere autoconsapevoli tanto da sapersi prendere cura ci ciò che accade. Nothing else matters.

Articolo in collaborazione con webzine;

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