Il concetto di eroismo

Mettersi sul piedistallo e rovinarsi con le proprie mani: Ronaldo

L’eroe è tale perché un gruppo di persone lo riconosce come tale.

Il concetto di eroismo, senza scomodare la dialettica hegeliana, si definisce sempre più relazionale, già nei differenti esempi che abbiamo trattato nelle scorse puntate.

Nella letteratura l’eroe è riconosciuto in primis dall’autore e in secondo luogo dal lettore che ne coglie l’eroismo delle gesta raccontate in un “qui e ora” storico che bagna la vita del protagonista e lo rende quel che è. 

Alcuni eroi sono destinati a esserlo: “divieni ciò che sei” direbbe Nietzsche che vede la società celebrare i propri eroi quasi “vittime” del proprio destino tanto da farci domandare se la forza di Achille e il suo successo non siano stati quasi una condanna. Il che lo renderebbe meno eroico e semplicemente il più forte tra pari, capace di assolvere in modo eccellente al proprio compito, ma incapace di andare oltre il proprio destino, oltre le proprie emozioni, oltre se stesso. Incapace, in parole povere, di essere come Ettore, vero eroe del mondo antico che finisce per combattere contro Achille, andando incontro alla propria morte, per scelta. 

Nella società contemporanea sembra quasi che la dialettica hegeliana cominci a fare cilecca e l’eroe sia capace di una relazione poco più che egoistica solo con se stesso. 

Successo e perfezione diventano i canoni che l’eroe interiorizza, fa suoi e con cui si confronta per autoriconoscersi come eroe in una relazione che vive prima con se stesso e poi impone agli altri. 

Ad Achille del proprio eroismo non fregava nulla, ai nostri eroi moderni sì. 

E così i Cristiano Ronaldo, i David Beckham tra campo, lusso, fiction e iniziative imprenditoriali diventano protagonisti sul piedistallo dell’egocentrismo eroico, compiaciuti di essere quello che sono, perfetti e lontani dalle passioni umane. Quasi incapaci di sperimentarle, vivono invece un successo continuo, perché l’eroe oggi ha successo, non può perdere e se lo fa non è colpa sua ma dell’arbitro, della pandemia, della guerra o addirittura del pubblico che non capisce. 

Per alcuni eroi il confronto con l’altro è sempre meno ricercato e non determina un arricchimento e un superamento del limite, perché di fatto questo limite non viene percepito, non esiste. Non sono ammessi conflitti perché ogni scontro sarebbe già vinto in partenza dall’eroe che, come tale, non può perdere. 

Altri eroi invece tornano ad essere più umani, alla Ettore, la cui umanità non vogliamo dimenticare. Tant’è che a chiunque venga chiesto chi è il più grande giocatore mai esistito, anche di fronte ai record di gol, vittorie, palloni d’oro e stipendi miliardari, brillano gli occhi a pensare a quel Diego Armando Maradona così grande in capo e così uomo fuori dal campo. Diego che giocava nel fango nei campetti di provincia, Diego che faceva le partite di calcetto con i detenuti, Diego che ballava per strada canzoni latine improvvisate da un menestrello stonato. Quello stesso Diego capace di palleggiare con arance e limoni come mai a nessuno si era visto fare e che litigava con il mondo ogni volta che aveva successo, quasi che la caduta fosse la sola ragione che lo aveva portato a quell’incredibile ascesa.

I nuovi “veri” eroi che troviamo nei team sportivi, nelle aziende, nelle istituzioni, nelle scuole, conoscono i propri limiti, li affrontano, si sporcano le mani, hanno ben presente che non è possibile e forse neanche “necessario” vincere sempre e stanno sempre più lavorando per modificare la cultura della sconfitta fino a poco fa predominate, che li vorrebbe mettere sul piedistallo come figure mitologiche e senza tempo. 

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