Che cosa significa essere umani?

Questa domanda ha tormentato la mente dell’umanità per millenni, scivolando tra filosofia, religione, biologia e fisica. Negli ultimi decenni, i progressi tecnologici legati all’Intelligenza Artificiale (IA), definita come una simulazione dell’intelligenza umana attraverso le macchine, hanno ulteriormente alimentato la discussione. Nel 2023, il bisogno di ragionare sul rapporto tra tecnologia e umanità si fa sempre più urgente, considerando l’estrema facilità con cui ogni giorno entriamo in contatto con le IA “subumane”, cioè iper-specializzate.

Certo, l’intelligenza artificiale subumana è stata una parte costante delle nostre vite per decenni: da Deep Blue, il computer IBM che vinse una partita a scacchi contro Kasparov nel 1997, a Siri, la nostra assistente virtuale. Eppure, ultimamente, proliferano le IA “creative”, causando uno smottamento etico e sociale riguardo la fantasia come prerogativa umana.

Per esempio AIVA e Boomy producono musica e il compositore Lucas Cantor si è addirittura appoggiato a una IA per farsi aiutare a immaginare come sarebbe potuta terminare la sinfonia incompiuta di Schubert. Analogamente, ArtAutomata, Perlin Art Bot 7403, DALL-E e Midjourney sono solo alcune delle IA che generano prodotti grafici, autonomamente o grazie a suggerimenti verbali da parte dell’umano. Se alcuni ritengono che le loro opere siano ancora lontane dal livello umano, altri temono possano, un giorno, sostituire il lavoro degli illustratori. Altri ancora accolgono il lavoro delle IA con favore, considerandole un aiuto prezioso per la realizzazione di bozze poi prodotte e rielaborate a mano. 

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Indipendentemente dal nostro schieramento in merito, non possiamo far altro che interrogarci sul futuro dell’uomo e sulla nostra concezione di un mondo antropocentrico. Si parla con apprensione, infatti, di singolarità tecnologica: “una crisi esistenziale connessa al momento in cui si ha l’impressione che il dominio dell’Uomo possa finire, poiché esistono altri esseri altrettanto intelligenti” (Shanahan, 2015).

Tra le molte opere letterarie, cinematografiche e videoludiche che hanno affrontato il difficile rapporto tra umanità e tecnologia troviamo sicuramente il videogioco Detroit: Become Human (Quantic Dream, 2018). Ambientato in un futuro non così lontano, il titolo racconta la storia di tre personaggi principali: Kara, un’androide babysitter che ha sottratto la piccola Alice a un padre violento, Markus, un androide assistente domestico che viene ingiustamente accusato di omicidio e Connor, un androide detective che indaga sui crimini commessi da altri androidi. 

Il giocatore interpreta tutti e tre, a capitoli alterni, aprendo una finestra sulle zone grigie dell’etica. Attraverso questo salto in avanti, tante domande per ora fantascientifiche vengono ancorate a una realtà tangibile, quella delle storie, intime e delicate, dei personaggi. Gli androidi dovrebbero avere dei diritti? Dovrebbero essere pagati per il loro lavoro? Meritano il rispetto degli umani? 

Il titolo diventa, così, uno spunto di riflessione sul concetto di umanità a tutto tondo, sul senso di giustizia, di equità e di empatia, oltre le distinzioni tra umani biologici e androidi.

Perché forse, in ultima analisi, l’umanità risiede proprio nella libertà di scelta, inclusa quella della rabbia e della violenza. Detroit: Become Human lascia questa libertà nelle mani del giocatore, padrone delle proprie decisioni, dei destini incrociati dei protagonisti e, potenzialmente, del mondo intero.

Articolo di: Ambra Ferrari

PhD in Educazione nella Società Contemporanea, Ambra Ferrari si occupa di progetti di ricerca sui temi della Human Computer Interaction. Ludonarrativista ed esperta di UX, con Horizon Psytech & Games è docente di Master in Psicologia Digitale relativi al potenziamento cognitivo e l’arricchimento valoriale degli adulti tramite videogiochi commerciali. Oltre che con Laborplay, collabora anche con Video Game Therapy come autrice di recensioni psicologiche dedicate al mondo videoludico indipendente.

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